Il diaframma è uno dei due congegni che servono a regolare la quantità di luce che entra nell’obiettivo attraverso un’apertura di forma circolare, di diametro variabile, situata al centro dell’obiettivo, tra le lenti.
Le macchine fotografiche antiche avevano un diaframma intercambiabile, che era semplicemente un disco con un foro al centro. Adesso tutte le macchine, tranne quelle “usa e getta”, hanno un diaframma composto da una serie di lamelle imperniate sulla circonferenza esterna dell’obiettivo.
Ruotando una ghiera le lamelle si aprono e chiudono formando un’apertura più o meno regolare, a seconda del numero delle lamelle. Nelle macchine più economiche sono due o tre, mentre in quelle più perfezionate sono cinque o sei e formano un cerchio quasi perfetto.
Oltre che a regolare la quantità di luce, il diaframma ha un’altra importante funzione: stabilisce la distanza alla quale tutti i soggetti sono perfettamente nitidi.
La luminosità dell’immagine proiettata attraverso l’obiettivo sulla pellicola dipende dall’apertura relativa del diaframma, cioè dal rapporto esistente tra la lunghezza focale e il diametro massimo del diaframma.
La luminosità si può variare come si vuole variando l’apertura del diaframma, secondo questa scala:
f. 1, f. 1,8, f. 2, f. 2,8, f. 4, f. 5,6, f. 8, f. 11, f. 16, f. 22, f. 32.
Di solito gli obiettivi normali si fermano a f. 32, mentre quelli delle macchine di grosso formato, usate in sala di posa, possono arrivare anche a f. 64 o f. 128. La scala ha una progressione geometrica ed è studiata in modo che l’apertura del diaframma si dimezza passando al valore superiore e si raddoppia passando al valore inferiore.
L’apertura massima, che indica la luminosità dell’obiettivo, a volte non corrisponde a un valore della scala. Questo significa che il disegno ottico dell’obiettivo permette di raggiungere un valore intermedio.
La maggior parte delle macchine fotografiche moderne hanno il diaframma a iride, composto da una serie di lamelle a forma di mezzaluna. Le macchine reflex monoculari hanno uno speciale diaframma automatico che resta completamente aperto, qualunque sia l’apertura impostata, fino al momento dello scatto. Immediatamente prima che si apra l’otturatore questo diaframma si chiude al valore prefissato e dopo l’esposizione si riapre alla massima apertura. In questo modo il mirino riceve la massima quantità di luce possibile durante le fasi della messa a fuoco e della scelta dell’inquadratura.
In tutte le fotografie possiamo notare che oltre al soggetto principale risultano a fuoco anche soggetti che si trovano davanti o dietro di lui. Questa zona, entro la quale tutto quanto risulta a fuoco, si chiama profondità di campo.
La sua estensione dipende dall’apertura del diaframma usato, oltre che dalla distanza del soggetto e dalla lunghezza focale dell’obiettivo usato. Se il soggetto si trova lontano, il diaframma è chiuso e la lunghezza focale dell’obiettivo è breve, la profondità di campo è massima. Se invece il soggetto è vicino, il diaframma aperto e la focale dell’obiettivo lunga, la profondità di campo si riduce al minimo. Quindi nella foto di paesaggi la profondità di campo può essere di qualche chilometro, mentre nella macrofotografia è di pochi millimetri.
In tutti gli obiettivi dotati di regolazione la zona di messa a fuoco viene indicata sulla ghiera di messa a fuoco, facilitando molto la ripresa. Ai due lati del segno di riferimento della distanza sono indicati i valori dei diaframmi, quindi è possibile rendersi conto immediatamente dell’ampiezza della profondità di campo.
Quasi tutte le macchine reflex monobiettivo hanno un tasto che serve a chiudere il diaframma al valore impostato senza dover scattare, ma è necessaria una certa esperienza per vedere dove inizia e dove finisce la zona di campo nitida.
Alcuni tipi di foto, come i ritratti o le foto di fiori, riescono bene con una profondità di campo molto ridotta, mentre altri, come le foto documentarie, richiedono una profondità di campo maggiore. In questo secondo
caso potete usare la tecnica della messa a fuoco sulla distanza iperfocale. È la distanza con la quale si ottiene una profondità di campo che parte il più vicino possibile all’obiettivo e arriva fino all’infinito. Secondo le leggi dell’ottica, quando l’obiettivo è focheggiato sull’iperfocale tutto quanto si trova tra metà di questa distanza e l’infinito è nitido.
Tuttavia questo sistema di messa a fuoco è un compromesso, perché soltanto i soggetti che si trovano sulla distanza impostata sono perfettamente a fuoco.
A mano a mano che aumenta la distanza da questo piano la nitidezza diminuisce, anche se resta accettabile per tutti gli scopi pratici.
Il massimo della profondità di campo, da pochi centimetri all’infinito, si ottiene con il foro stenopeico, che è un diaframma con un’apertura focale microscopica. Ecco come potete costruirvi questo semplice congegno che una volta era usato invece dell’obiettivo.
Ritagliate da un foglio di stagnola un disco delle stesse dimensioni dei filtri della vostra macchina. Poi con la punta di un ago fate un foro piccolissimo (quel tanto che basta a veder passare la luce) esattamente al centro del disco. Infine montate il disco su una montatura per filtri o un filtro trasparente.
Applicatelo sull’obiettivo e otterrete immagini di una nitidezza sorprendente, che si estende da pochi centimetri fino all’infinito.
Il foro stenopeico equivale a un’apertura focale pari a f. 128, f. 254 o anche più. Quindi l’esposizione risulta lunghissima e potete trovarla solo per tentativi.